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Chiesa di Santa Maria Maggiore – Santuario della Spogliazione – Domus Properzio

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La Chiesa di Santa Maria Maggiore è un’altra antica e preziosa testimonianza della profondità storica di questa città. Il luogo dove sorge la Chiesa è incredibilmente stratificato e in pochi altri luoghi è possibile ripercorrere così tanta storia, soprattutto così ben conservata, in sette metri di altezza. Questo luogo, ancora tutto da esplorare e da studiare, è stato una casa, appartenuta a un ricco personaggio cittadino, probabilmente un poeta; è stato un probabile tempio pagano per poi diventare una chiesa paleocristiana, fondata secondo la tradizione dal vescovo Savinio nel IV secolo, che ha cambiato molte volte la sua immagine fino ad arrivare al XII secolo, nel quale prenderà la conformazione che oggi possiamo vedere. A testimonianza della sua versione definitiva possiamo leggere una iscrizione posta sull’unico rosone della facciata: “ANNO DOMINI 1162 IOHANNES FECIT”. Lo Iohannes che viene citato nell’iscrizione è probabilmente lo stesso Giovanni da Gubbio che progettò qualche anno prima, la Cattedrale di San Rufino.

In questo luogo dove ‒ come del resto in tutta Assisi ‒ la storia è tenacemente intrecciata con il mito, è avvenuto uno degli eventi più importanti della vicenda Francescana: la “Spogliazione”, il momento che rappresenta la totale conversione di Francesco alla missione cristiana. Il vescovo Guido, amico del giovane e rampante aristocratico, che in questo luogo si spoglierà simbolicamente e fisicamente di ogni suo bene, è uno dei protagonisti della storia. La Spogliazione avvenne durante un processo nel quale Francesco era imputato e fu indetto negli spazi della sede vescovile, che all’epoca si trovava proprio in Santa Maria Maggiore. Pietro di Bernardone accusava pubblicamente il figlio per aver sperperato molti beni della famiglia senza il suo permesso per donarli ai poveri, sperando che il giudizio della pubblica piazza potesse fargli ritornare il senno. In tutta risposta Francesco si spogliò, completamente nudo, consegnò i vestiti al padre come ciò che di ultimo gli apparteneva e con la celeberrima frase compì il passo per il ricongiungimento definitivo a Dio: «Finora ho chiamato te, mio padre sulla terra; d’ora in poi posso dire con tutta sicurezza: Padre nostro che sei nei cieli, perché in lui ho riposto ogni mio tesoro e ho collocato tutta la mia fiducia e la mia speranza». Mentre il vescovo Guido si affrettava a coprirlo con il suo mantello e la folla lo acclamava, Pietro di Bernardone capì che non poteva più avanzare accuse, perché Francesco non era più suo figlio. Molti hanno raccontato la Spogliazione nel corso dei secoli, chi c’è riuscito meglio è forse Giotto, che dipinse la scena nel suo ciclo di affreschi sulle storie del Santo nella Basilica Superiore di San Francesco. Non è dato sapere quale fu il luogo preciso in cui si svolse il processo. Le voci si dividono in tre ipotesi: nella Sala del Trono del Palazzo Vescovile, oggi Sala della Spogliazione, nel chiostro antistante o direttamente all’esterno, nel piazzale davanti la chiesa. Tutti e tre gli ambienti sono aperti al pubblico. Visitandoli potrete farvi voi stessi una personale ipotesi su dove accadde la vicenda.

La facciata, di stile romanico, presenta come unici elementi decorativi, il rosone a otto bracci e due linee di costolatura verticale, le quali ripartiscono i tre spazi che poi coincideranno all’interno con quelli suddivisi dalle navate. A terra due timidi portali ‒ uno grande al centro, uno piccolo piccolo sulla sinistra ‒ sono gli unici spazi d’accesso e gli unici elementi che interrompono quel roseo mare di pietra. Santa Maria Maggiore ha uno stile di costruzione straordinariamente semplice, e rappresenta forse l’idea più vicina a quella di chiesa francescana esistente ad Assisi. Infatti una pietra posta sul retro, all’esterno dell’abside, ci dice che furono eseguiti dei lavori di ristrutturazione nel 1216, anno in cui Francesco era vivo e, data la sua vicinanza con il vescovo Guido, avrebbe potuto in qualche modo influenzarne l’aspetto secondo i suoi canoni.

L’interno è, come si diceva, composto da tre navate e puntinato di affreschi, o di ciò che ne resta. Molte delle opere che ricoprivano le pareti e le colonne della chiesa si sono staccate nel corso dei secoli e ciò che rimane sembra essere disposto in ordine casuale sullo stucco bianco che si alterna al nudo mattone, come le ultime foglie che rimangono caparbiamente attaccate ai rami d’inverno. Alcuni dei soggetti dipinti, da datarsi a partire dal XIV secolo, sono chiari e riconoscibili, altri sono semplicemente macchie di colore che il tempo fa fatica a lavare via. Scendendo nella cripta si percorre la prima tappa a ritroso nel tempo che ci conduce all’interno della basilica paleocristiana. Sotto le basse volte di mattoni sono visibili alcuni capitelli romani e un sarcofago in pietra di epoca longobarda risalente al IX secolo. Continuando la discesa si accede per la cripta a un ulteriore livello stratigrafico, emerso nella seconda metà del XIX secolo durante degli scavi portati avanti da studiosi locali.

Ciò che ci si trova davanti sono i resti di una domus, una casa romana, più precisamente gli spazi di un criptoportico, cioè il passaggio di servizio seminterrato o coperto che in antichità era utilizzato per collegare i vari ambienti di un edificio. Questo criptoportico è stato riconosciuto da alcuni come quello della casa dove visse durante gli anni della sua giovinezza Sesto Properzio, uno dei più grandi poeti della Roma imperiale.  Egli lavorò alla corte dell’Imperatore Augusto e passò alla storia grazie alle sue elegie, un particolare tipo di poesia di derivazione greca che verrà ripreso nel Medioevo e riportato in seguito a nuova vita da autori come Carducci, Leopardi, D’Annunzio e Goethe. In realtà la teoria della appartenenza della casa al poeta elegiaco è avvolta nel mistero.  La tesi è supportata dall’analisi di un graffito ritrovato lungo le pareti della domus, lasciato da un visitatore due secoli dopo la probabile costruzione per lasciare il segno della propria presenza, un po’ come quelli incisi sugli alberi dagli innamorati. Quello che oggi potrebbe essere considerato un atto vandalico è paradossalmente diventato dopo millesettecento anni una testimonianza di importanza inestimabile. Il graffito non è perfettamente leggibile e presenta alcune mancanze, ma è stato interpretato così: “Il 22 febbraio dell’anno 367, sotto i consoli Giovino e Lupicino, ho baciato la casa della musa”. Margherita Guarducci, che scoprì il graffito e si occupò dello studio e degli scavi negli anni Settanta, sosteneva che la parola “musa” simboleggiasse lo spirito della poesia, perciò poteva essere una traduzione metaforica di “poeta”. L’idea è che quella casa nel IV secolo fosse già considerata un luogo legato al culto del grande poeta nato ad Assisi, meta di curiosi ed estimatori. Magari un museo ante litteram, o un tempio, un luogo pubblico in ogni modo e non privato, dove chi entrava aveva la possibilità di lasciare un graffito come quello. In più, durante gli scavi, furono ritrovati all’interno della domus dei frammenti di una lapide che accenna ad un uomo di nome “Sex. Propertius” (Sextus?) come committente del teatro della città.

Per sapere di chi o cosa fossero precisamente questi ambienti dovremo aspettare ancora qualche tempo, ma ciò non toglie la straordinaria bellezza della loro fattura. La parte della domus riemersa dalla terra, cioè quella addossata alle antiche mura romane e medievali, è costituita da quattro ambienti principali, tre sale e un lungo corridoio. Le decorazioni del pavimento e delle pareti sono estremamente ben conservate e facilmente distinguibili. A terra preziosi tasselli di marmo pregiato sono disposti secondo la tecnica dell’opus sectile a formare colorati motivi geometrici. Anche gli affreschi, che oltre le pareti arrivavano probabilmente a ricoprire anche il soffitto, mantengono il colore estremamente vivido. Una menzione particolare va al viridarium: un affresco che occupa una nicchia all’interno del corridoio in cui è rappresentato un giardino bucolico formato da rami con piccoli fiori rossi a forma di cuore, dove sono posati novantasei uccellini cinguettanti. Due dei disegni affrescati sono ben riconoscibili: il primo, una rappresentazione mitologica di Apollo, dà un’ulteriore prova alla teoria che qui ci fu anche un tempio oracolare; il secondo ha creato molti problemi agli studiosi e presenta due figure umane delineandone i volti, come in un primo piano: una tecnica del tutto inusuale e mai riscontrata in nessun altro caso.

Se tutti questi misteri vi confondono troppo, potete sempre uscire verso i giardini esterni della Chiesa, dove prendere una boccata d’aria, osservare i resti dell’antica cinta muraria e far riposare la mente perdendovi nel panorama della valle.

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