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Umbria: una breve storia (terza parte)

L'ultima parte dell'affascinante storia dell'Umbria

Umbria: una breve storia (seconda parte)

L’ETA’ MODERNA

Durante la seconda metà del ‘300 e per tutto il ‘400 nascono e si consolidano, in Umbria come in altre parti dell’Italia centrale e settentrionale, le Signorie. Esse sono la inevitabile conseguenza della incapacità dell’organizzazione politica e amministrativa dei Comuni di gestire una società che, sotto molteplici punti di vista, si era profondamente trasformata, divenendo più complessa e articolata. Espressione tra le più significative di questo processo è rappresentata dalla parziale crisi del sistema feudale e dall’emergere di una nuova inedita classe sociale, la borghesia, costituita dai “nuovi ricchi” delle città, che s’identificano in una o più famiglie. L’iniziale tramonto del sistema comunale coinvolge, in alcune parti d’Italia – là dove sono presenti famiglie con una notevole forza economica e sociale – la sua dimensione micro-territoriale, inadeguata e obsoleta rispetto alle nuove esigenze del commercio e alle nuove potenze nazionali europee, Francia e Spagna innanzi tutto. La Signoria, infatti, coincide in alcuni casi (Lombardia e Toscana) con uno Stato regionale, ma non impedisce, tuttavia, il riproporsi sia di rigurgiti e rivendicazioni localistici che di conflitti tra le stesse Signorie, o con il Papa, o con le suddette potenze europee. Anzi, solo la Pace di Lodi, del 1454, consente all’Italia di godere di alcuni decenni di non-guerre, che favoriscono, anche in Umbria, il sorgere e/o l’affermarsi di quell’eccezionale fenomeno artistico che è il Rinascimento. A Foligno, nel 1472, viene stampata per la prima volta la Divina Commedia, mentre l’anno precedente a Perugia usciva la prima edizione (in stampa) del Digesto di Giustiniano, ad uso degli studenti di Diritto di quella Università. Nello stesso arco di tempo le chiese dell’Umbria ospitano le pitture di Benozzo Gozzoli, di Raffaello, di Filippo Lippi, del Perugino, di Luca Signorelli e del Pinturicchio, che si aggiungono a quelli di alcuni secoli prima di Cimabue, Giotto, Simone Martini e Lorenzetti, presenti nella Basilica di Assisi.

In Umbria le Signorie non “sfondano”, per una serie di situazioni ben definite: da una parte, come si diceva sopra, la politica della Chiesa, dall’altra la crisi agricola, economica e demografica, iniziata nella seconda metà del XIV secolo, a seguito della peste nera. Si registra anche una forte contrazione delle produzioni artigianali e degli scambi commerciali. Ne consegue una diffusa debolezza finanziaria, che non consente a una o più famiglie, o gruppi dominanti, di emergere in modo significativo. Nemmeno i condottieri delle diverse e nuove Compagnie di ventura, pur diventati famosi, riescono a imporsi a livello regionale: Gattamelata da Narni e Braccio Fortebraccio da Montone, al quale si deve l’unico tentativo di unificazione regionale. Infatti, dopo aver conquistato Perugia, nel 1416, sottomette quasi tutta l’Umbria, ma a seguito di alterne vicende ed anche per le sue sproporzionate ambizioni extraregionali, le truppe pontificie lo sconfiggono otto anni dopo a l’Aquila, dove peraltro trova la morte. Tentativi analoghi sono compiuti anche dalla famiglia Trinci a Foligno e dintorni, dai Gabrielli a Gubbio e da Iacopo Piccinino ad Assisi e in alte città delle Marche. Falliscono tutti per l’intervento deciso del Papa. Città di Castello è sotto il dominio dei Vitelli, mentre a Perugia si combattono, senza esito, le famiglie dei Baglioni e degli Oddi. Perugia, che agli inizi del ‘500 è in una fase declinante del suo potere, cade insieme con tutta l’Umbria sotto il potere di Cerare Borgia, figlio del papa Alessandro VI. Alla morte di questi, i Baglioni tornano per un breve periodo al potere, ma prima Giulio II e poi Paolo III riprendono il controllo della città, che è sottoposta a una serie di “punizioni” amministrative e tributarie, tra le quali l’obbligo di acquistare il sale dalle saline della Chiesa e a un prezzo superiore a quello di mercato. Questo provvedimento colpisce soprattutto le classi popolari e perciò non tarda a provocare una ribellione, alla quale il Papa risponde prima con la scomunica e poi, nel 1540, con l’esercito, e assoggetta definitivamente la città. Vengono aboliti gli ordinamenti vigenti, estromessi i Priori da qualunque esercizio del potere, distrutte le case dei Baglioni e al loro posto si costruisce, su progetto del Sangallo, la Rocca Paolina, a testimonianza del potere pontificio su tutta la Regione. Con la conclusione della “guerra del sale” (così fu definita) la storia dell’Umbria viene assimilata alla più generale storia dello Stato della Chiesa. I poteri locali perdono la loro residua autonomia e tramonta anche la feudalità delle campagne sopravvissuta al primato delle città. All’interno delle quali si registra l’irrilevanza di quelle potenti (?) famiglie che avevano inutilmente tentato la scalata al potere, anche regionale. In questo contesto, di situazione “tranquilla”, emergono nuovi potentati, sostenuti e controllati dalla Chiesa, si inaridiscono ambizioni e progetti politici, cessano rivendicazioni e rivolte, le città non si combattono. Si accetta, anzi si subisce, l’esistente, che, deprivato di qualunque tensione verso il futuro, non fa progredire l’economia né le condizioni sociali della popolazione e, ovviamente, riemerge e si aggrava la marginalità dell’Umbria. Entra in crisi l’economia urbana e nelle campagne il contratto di mezzadria si consolida come quello di gran lunga dominante, con l’intensificarsi della presenza dei tanti casolari e ville, che ancora oggi caratterizzano il paesaggio rurale dell’Umbria. Inoltre, il rapporto mezzadrile, che rafforza la propensione all’autoconsumo, isterilisce il commercio e non favorisce l’accumulazione capitalistica. Questa crisi, che nel ‘600 diventa anche demografica a causa delle pestilenze degli anni trenta e quaranta, si protrae fino ai primi decenni del ‘700. Nel frattempo l’Umbria è una delle tante province, e non tra le più importanti, dello Stato della Chiesa, al quale fornisce olio, grano e manodopera a basso costo. Tra i cartografi e i geografi ricompare il termine “Umbria”, precedentemente sostituito dalle varie denominazioni subregionali (”Perugino”, “Orvietano”, ecc.), ma per indicare, ancora una volta, il territorio tra il Tevere e l’Appennino, cioè l’ex Ducato di Spoleto. A partire dalla seconda metà del ‘700 si registra una netta ripresa generale, sia di carattere economico (basti pensare al moltiplicarsi delle fiere) che sociale, ma che trova efficace espressione anche in una profonda trasformazione e implementazione urbanistica e architettonica, rappresentata da una fiorente attività edilizia, sia privata (i nuovi ceti emergenti) che pubblica (i vari luoghi di aggregazione artistico – culturale e del tempo libero).

Mentre il ’700 volge al tramonto l’Europa è sconvolta dagli eventi, non solo militari, prodotti dalla Rivoluzione francese e dall’irrompere, nella scena internazionale, di Napoleone e del suo esercito, che combatte su più fronti, compreso quello italiano. Nel 1796 dà inizio alla Campagna d’Italia, che in poco più di un anno lo porta alla conquista dell’Italia settentrionale. Il 10 febbraio del 1798 le truppe napoleoniche entrano a Roma e, con il Papa che si rifugia in Toscana, viene proclamata la Repubblica Romana. L’Umbria è suddivisa nel Dipartimento del Trasimeno, con capoluogo Perugia, e nel Dipartimento del Clitunno, con capoluogo Spoleto. Ma già nel 1800, con l’intervento di Austriaci e Napoletani, essa viene riconsegnata alla Chiesa, per essere poi, nel 1809, riconquistata dai Francesi, che la inglobano nell’Impero napoleonico come unico Dipartimento con capoluogo Spoleto. La Restaurazione, conseguenza della disfatta di Napoleone e del Congresso di Vienna (1814-15), assegna l’Umbria al Papa Pio VII, che la dichiara Provincia, con le due Delegazioni, ancora una volta, di Perugia e Spoleto. Durante questi pochi e tormentati anni la Regione, al pari di altre parti d’Italia depredata dai Francesi di molte opere d’arte, non subisce particolari trasformazioni e nemmeno è protagonista di episodi significativi, mentre la sua economia, fondamentalmente agricola e su base mezzadrile, risulta ancora poco evoluta.

 

VERSO L’UNITA’ D’ITALIA

I protagonisti del Congresso di Vienna, in particolare il principe Metternich, sono convinti di aver dato all’Europa un assetto politico equilibrato e che la Restaurazione, ossia il ripristino della situazione politica come era nel 1792, sarebbe stato duraturo. In effetti non è, né può essere, così. Quella impostazione si rivela miope e antistorica, perché prescinde completamente dal fatto che in Europa ci fossero stati la Rivoluzione francese e il periodo napoleonico e, prima ancora, quell’importante movimento d’idee che fu l’Illuminismo, con i suoi princìpi di liberà e di uguaglianza, che ormai mal si coniugavano con la ripresentazione delle vecchie monarchie assolute. In Italia, questo nuovo modo di vedere il rapporto tra governanti e governati (non più “sudditi”, ma “cittadini”) dà luogo al Risorgimento, che si nutre di quelle idee liberali e, talora, repubblicane, che ben presto danno luogo a una lunga serie di rivolte contro i “legittimi” sovrani in quasi tutto il territorio della Penisola. Emerge, in questo contesto, con sempre maggiore evidenza l’idea di “Nazione”. Ai moti insurrezionali agli inizi degli anni ’20 e ‘30 seguono le due guerre d’indipendenza del ’48 e del ’59. Sia pure con le difficoltà che scaturiscono dal rigido controllo del governo pontificio e dalle sue iniziali condanne “dottrinali” del liberalismo (che sfoceranno poi nel “Sillabo” di Pio IX, nel 1864), anche in Umbria si diffondono le idee liberali e nazionalistiche, che hanno non pochi seguaci, in collegamento con i liberali dell’Emilia-Romagna e delle Marche. In molte città di queste Regioni, appartenenti allo Stato pontificio, nel 1931 – 32 si verifica una serie, partita da Parigi un anno prima, di moti insurrezionali, che coinvolgono molte città dell’Umbria, in particolare Perugia, Spoleto e Foligno. C’è anche un tentativo di volontari di “marciare” su Roma, ma vengono fermati a Rieti e arrestati o esiliati. Nel 1848 insorge di nuovo Perugia, col tentativo di distruggere la Rocca Paolina, ma con l’intervento dell’esercito austriaco (vigeva ancora il principio dell’alleanza tra Trono e Altare) dopo alcuni mesi Perugia è occupata e tutta l’Umbria ritorna sotto il controllo pontificio. Nel 1859, proprio mentre nell’Italia settentrionale si combatte la seconda guerra d’indipendenza (Piemontesi e Francesi contro Austriaci), a Perugia si costituisce un governo provvisorio, durato solo una settimana, perché il 20 giugno un esercito di duemila mercenari svizzeri la saccheggia, non risparmiando nemmeno cittadini del tutto indifesi. Infine, il 14 settembre del 1860, dopo una settimana dall’entrata di Garibaldi a Napoli, le truppe piemontesi entrano a Perugia e con il successivo plebiscito nel mese di novembre l’Umbria e le Marche vengono annesse al nascente Stato italiano. Il 27 marzo del 1961 c’è la proclamazione del Regno d’Italia. Viene istituita un’unica “Provincia di Perugia”, con altri sei “circondari”: Orvieto; Spoleto; Foligno; Terni; Rieti e Gubbio, sottratta alle Marche. D’ora in poi il termine “Umbria” farà riferimento ad un unico territorio, sia pure con valenza ancora puramente amministrativa, non come espressione di una entità geopolitica storicamente unitaria ed omogenea. Questo dato non cambierà nella sostanza né dopo il 1923 (Rieti e la Sabina passano al Lazio), né dopo il 1927, quando l’unica Provincia viene divisa in due, Perugia e Terni, che il regime fascista, amante delle enfasi, definirà come “Atene dell’Umbria” e “Manchester d’Italia”; quest’ultima a motivo dell’importante impianto siderurgico, già attivo dagli anni ’80 del secolo precedente.

 

L’UMBRIA CONTEMPORANEA

L’Umbria postunitaria e fino ai nostri giorni, da un punto di vista politico – a parte gli episodi legati alla seconda guerra mondiale e l’istituzione della Regione dell’Umbria – non presenta vicende di notevole rilievo. E’ significativo evidenziare che in tutte le elezioni politiche e regionali, esclusa la pesante sconfitta alle politiche del 2018 (le ultime prese in considerazione in questa sede), i Partiti di sinistra abbiano sempre avuto in Umbria una netta maggioranza, come in altre Regioni già appartenenti all’ex Stato della Chiesa (Emilia Romagna e Marche). Al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 il 71,9 % degli Umbri vota a favore della Repubblica. Questi dati non debbono trarre in inganno sul rapporto tra l’Umbria e il fascismo, inganno nel quale si può ulteriormente cadere se si considera che: alle elezioni politiche del 1919 i socialisti (il PCI sarebbe nato due anni dopo) riceve il 51% dei voti; nel 1946, PCI+PSI il 51%; nel 1948, il 47% (maggioranza relativa); nel 1953 il 52%; alle  elezioni del 1970 per  la prima Assemblea regionale il PCI prende il 41,9% dei consensi, la DC il 30,3% e il PSI il 9,5%. Nonostante questi risultati, anteriori e successivi al ventennio fascista, sembrino esprimere netta contrarietà a quel regime, il fascismo in Umbria si afferma tra tutte le classi professionali urbane a anche nelle campagne.  Questo è potuto accadere sia per una persistenza stagnante del sistema mezzadrile nelle campagne, sia per l’incapacità di risolvere le problematiche e i conflitti che andavano emergendo nei rapporti tra i diversi ceti sociali all’indomani del primo dopoguerra. Non è un caso che i quadrunviri fascisti abbiano preparato la “marcia su Roma” del 20 ottobre del 1922 a Perugia e da lì, dall’Hotel Brufani, siano partiti per la capitale. D’altronde, già nelle elezioni del 1921, precedute dalle violenze delle “squadracce” fasciste, si ribaltano i risultati di due anni prima: i socialisti passano dal 51% al 25% e i fascisti con i loro alleati balzano dal 23% al 53%. Occorre inoltre precisare che, se debole è stata la resistenza al fascismo -tranne nella città di Terni e per alcune personalità come Aldo Capitini- altrettanto poco entusiastica è stata l’adesione ad esso, a parte quella delle classi dirigenti e dei notabili. Ostili, le une e gli altri, a qualunque processo di modernizzazione e favorevoli a una situazione “tranquilla” nei rapporti di lavoro e nelle strutture produttive. Con la fine della guerra, in Umbria e altrove in Italia, il ventennio fascista viene vissuto come un brutto sogno, indipendentemente dal consenso che aveva ricevuto. D’altronde la guerra non aveva risparmiato la Regione da bombardamenti e attacchi aerei su località strategiche, in particolare su Terni e Foligno. Queste sono le prime due città dove, nel giugno del 1944, entrano le truppe alleate, e poi a Perugia e a Gubbio, dove pochi giorni prima i tedeschi avevano fucilato per rappresaglia quaranta inermi cittadini.

Più articolate, e per certi versi più significative di quelle politiche, sono le vicende postunitarie economiche e sociali, alle quali si è fatto prima qualche breve cenno, perché ci fanno comprendere molti aspetti dell’Umbria contemporanea che altrimenti ci sfuggirebbero. Ovviamente, le novità più importanti non potevano venire soltanto da una crisi e da una destrutturazione del modello mezzadrile nelle campagne, ma anche da un nuovo processo d’industrializzazione (oltre Terni), da un rilancio dell’artigianato e dall’esordio di un terziario moderno e coerente con le caratteristiche e le potenzialità della Regione. Per questo motivo è necessario suddividere questo secolo e mezzo postunitario, fino ai nostri giorni, in due periodi, considerando, grosso modo, gli anni ’60 del XX secolo come spartiacque tra il prima e il dopo.

Gli anni che succedono all’Unità d’Italia registrano un peggioramento dell’economia umbra, che paga ulteriormente il suo isolamento commerciale e l’arretratezza delle sue campagne, ora che si è aperto un mercato di dimensioni nazionali. Il fenomeno migratorio, prima stagionale e verso le Regioni confinanti, diventa più o meno definitivo e diretto anche altrove. Le vie di comunicazione, del tutto inadeguate e nonostante l’attivazione completa della linea ferroviaria Roma – Ancona, via Terni – Spoleto – Foligno, marginali, anche a causa della nuova Roma – Firenze, che lambisce a occidente tutta l’Umbria, senza coinvolgerla. Non modificano sostanzialmente questa situazione né le già citate acciaierie di Terni né la nascita di altre poche piccole industrie, come la “Perugina”, nel 1908. Intanto, nel primo cinquantennio postunitario si verifica un significativo incremento della popolazione, che nel censimento del 1911 è pari a 767.000 abitanti, con un tasso di analfabetismo che sfiora il 50%. Il sistema della mezzadria è ancora esteso e solido, ma, anche a causa dell’incremento demografico che non riesce ad assorbire – facilitando ulteriormente l’emigrazione – comincia a manifestare le prime crepe. Negli anni ’20 e ’30, tuttavia, si cominciano a intravedere quelle nuove potenzialità alle quali si faceva riferimento poco sopra, che riguardano il patrimonio urbanistico e culturale della Regione, oltre a quello religioso, che vanta un grande numero di conventi, abbazie ed eremi, aventi tutti come baricentro ideale Assisi. La quale, in occasione dei 700 anni della morte di San Francesco, riceve oltre due milioni di fedeli da tutte le parti del mondo, inaugurando una delle future risorse dell’Umbria, che sarà definita “turismo religioso”.  Nel 1926 viene istituita a Perugia l’Università per stranieri e in varie città, Perugia compresa, si comincia a progettare la loro ristrutturazione architettonica e la loro pianificazione urbanistica, allo scopo di renderle più abitabili e “appetibili”, ma non sempre con rifacimenti ed esiti apprezzabili.

La vera svolta si verifica a cavallo degli anni ‘60, che sono anche gli anni del boom economico italiano. Il sistema mezzadrile cede con gradualità, ma decisamente, alle trasformazioni e alle nuove esigenze dell’economia regionale e nazionale. Le campagne, dove negli anni del dopoguerra erano iniziate le lotte dei contadini, si cominciano a spopolare a vantaggio dei centri urbani, Perugia e Terni in primis, ma non solo. Emergono inediti e imprevedibili rapporti città- campagna, talora privi di armonia e causa di nuove forme di distorsione sia nelle une che nelle altre, che modificano sensibilmente i due rispettivi paesaggi, ma che nel complesso migliorano notevolmente la qualità della vita. La popolazione rurale, che superava il 50% nel 1951, passa al 21% nel 1971 e scende sensibilmente nei decenni successivi. Emergono nuovi ceti imprenditoriali che mettono in atto un processo d’industrializzazione diffusa, dal tessile all’alimentare, mentre si affermano sempre più l’artigianato e il settore terziario di qualità, soprattutto nei servizi alla persona, nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio ambientale e artistico-monumentale (danneggiato quest’ultimo soprattutto, ma non solo, ad Assisi e a Foligno da un terremoto di forte intensità nel settembre del 1997). Un discorso a parte merita il turismo nelle sue varie forme – da quello culturale (Festival di Spoleto), artistico (Umbria Jazz) e religioso a quello agrituristico ed enogastronomico – uno dei volani più importanti dell’economia regionale, sostenuta  in parte da una rete di comunicazione stradale molto migliorata, a partire dalla superstrada Orte – Perugia  – Ravenna. Questi processi di profonda trasformazione coinvolgono, in misura maggiore o minore, tutta la Regione e, insieme alla politica inevitabilmente unitaria del nuovo Ente regionale, producono un graduale e significativo superamento di quel dualismo, anche nominalistico, tra il di qua e il di là del Tevere (che ha segnato tutta la storia dell’Umbria),facendo nascere nel contempo, per la prima volta, un senso di appartenenza e d’identità, che non può che far bene al futuro dell’intera Regione e dei suoi abitanti.

 

Bibliografia.

Covino, G. Gallo (a cura di ); Le Regioni dall’Unità a oggi. Umbria; Einaudi; 1989.

Tosti (a cura di); Storia dell’Umbria dall’Unità a oggi; Marsilio; 2014.

Umbria; Touring Club Italiano; 2004.

R. Petrini; Umbria; UTET; 1963.

Enciclopedia Italiana Treccani; voce Umbria.

Umbria; Sadea Sansoni; 1964.

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